giovedì 25 febbraio 2016
Le sette chiese
SAN FILIPPO NERI E IL PELLEGRINAGGIO DELLE SETTE CHIESE
Così Pippo il Buono rimise la Chiesa nel cuore dei Romani
Almalinda Giacummo
Ripercorrere oggi il cammino “inventato” da san Filippo Neri non è cosa semplice: il giovedì grasso di ogni anno, a partire dal 25 febbraio 1552, i fedeli, all’inizio pochi amici poi diverse migliaia di persone, partivano alla volta delle maggiori chiese della Città Eterna, san Pietro, san Paolo, san Sebastiano, san Giovanni in Laterano, santa Croce in Gerusalemme, san Lorenzo e santa Maria Maggiore.
Ci volevano buone gambe e tanta fede per una vera processione di penitenti e san Filippo aveva scelto il periodo del Carnevale per preservare soprattutto i giovani dal peccato e dalle ricadute in esso. Poi l’itinerario prevedeva soste in mezzo alla natura: la Roma del Cinquecento in queste zone era una città con ampi spazi verdi o coltivati anche all’interno delle mura aureliane, contornata da vigne, orti, campagna incolta disseminata di monumenti antichi, di memorie. Quindi non una vera scampagnata, come si potrebbe pensare oggi. I luoghi toccati dai penitenti erano, e lo sono tutt’oggi, ricchi di ricordi storici, fonte di meditazione. Da sempre visitando antiche chiese e sepolcri di santi e martiri ci si sente più vicino ai tempi dei primi cristiani e diventa più facile pregare, la stessa fede si ravviva.
I testi seicenteschi sulle Sette Chiese ricordano che ogni tratto di questo itinerario rappresentava uno dei sette viaggi di Cristo durante la Passione, in una sorta di Via Crucis: dal cenacolo al Getsemani; dall’orto alla casa di Anna; da questa alla casa di Caifa; da lì al palazzo di Pilato; da quello di Pilato a quello di Erode; di nuovo da Erode a Pilato; e infine dal palazzo di Pilato al Calvario. L’intero percorso veniva compiuto nella stessa giornata, oppure si dedicava il primo giorno a S. Pietro e il giorno dopo alle altre. Ma si potrebbe oggi attraversare Roma, con il suo traffico caotico, cantando inni sacri e salmodiando: “Vanità di vanità – Ogni cosa è vanità. / Tutto il mondo è ciò che ha – Ogni cosa è vanità” secondo il canto attribuito a Giovanni Animuccia, uno dei primi compagni del santo? Andiamo con ordine.
Il Pellegrinaggio delle Sette Chiese cominciava il mercoledì sera originariamente dalla chiesa di san Gerolamo della Carità, poi dalla Chiesa Nuova, dove il corteo si radunava: si recitava la preghiera dei pellegrini, o Itinerarium, quindi i fedeli venivano divisi in centurie, ognuna preceduta da uno stendardo rappresentante le varie opere di misericordia. Poi si formava il corteo con davanti i Padri Cappuccini con la Croce, i giovani con i Padri dell’Oratorio di san Filippo, e le donne, il tutto inframmezzato dalle fanfare. La Chiesa Nuova fu costruita per volere di Filippo e di papa Gregorio XIII dal 1575 sulle macerie di tre chiese più antiche, una delle quali si chiamava santa Maria in Vallicella, nome riferito alla vallecola che si trovava nella zona. Durante lo scavo per le fondamenta venne poi ritrovato un muro antico (paries), utilizzato come base per tutta la costruzione e da cui deriva il nome che definisce il rione, Parione.
Passando sul ponte sant’Angelo si andava quindi a San Pietro e dopo la visita il corteo si fermava all’Ospedale di Santo Spirito in Sassia, dove si visitavano i malati.
L’appuntamento era per il giorno successivo: da porta Santo Spirito si procedeva per via della Lungara, si attraversavano gli Orti di Trastevere e porta Settimiana, si attraversava il Tevere all’Isola Tiberina fermandosi anche alla chiesa di San Bartolomeo. Si prendeva quindi la direzione per la Basilica di San Paolo, passando accanto al teatro di Marcello, la Rupe Tarpea, alle chiese di San Nicola in Carcere e di Santa Maria in Cosmedin, Circo Massimo, la salita del colle dell’Aventino, scendendo poi per la Via Ostiense e passando attraverso la Porta, dove ai pellegrini venivano consegnati i bollettini, foglietti di carta utilizzati per il conteggio dei partecipanti, fino ad andare ad onorare la tomba dell’Apostolo delle Genti alla basilica di San Paolo, per la seconda visita.
Si proseguiva ancora lungo l’antica via Paradisi per San Sebastiano e le sue catacombe, in cui san Filippo era solito recarsi a pregare e dove aveva ricevuto il “globo di fuoco”, lungo un percorso che a quei tempi era in aperta campagna. Su questa strada, nel 1575, durante uno dei pellegrinaggi delle Sette Chiese si incontrarono s. Filippo Neri e s. Carlo Borromeo, l’incontro è celebrato in due tondi in marmo con i ritratti dei santi su una parete della chiesetta dedicata ai santi Isidoro ed Eurosia.
Nella chiesa di San Sebastiano si celebrava la Messa e la maggior parte dei presenti prendeva parte alla comunione eucaristica. Si riprendeva la marcia e passata la porta con l’augurio di “Buona camminata Padre Filippo!” lanciato dalle guardie, si era soliti fare una sosta ricreativa, inizialmente in una proprietà della famiglia Crescenzi presso porta San Sebastiano, sostituita in seguito da una sosta in quella che oggi è villa Celimontana al Celio. Ciriaco Mattei, con grande magnanimità, aveva concesso l’apertura del suo giardino al popolo romano almeno una volta all’anno, in occasione appunto del pellegrinaggio alle Sette Chiese istituito da San Filippo Neri, i fedeli, a metà del percorso, avevano la possibilità di sostare nel “circo” di Villa Mattei e di consumare una refezione, offerta dai padri Filippini, che consisteva in una pagnotta, vino, un uovo, due fette di salame, un pezzo di formaggio e due mele per ciascuno.
La predisposizione della Villa in quella circostanza richiedeva una grossa organizzazione, arrivando ad accogliere fino a 3500 persone. Seguendo una rigida divisione per rango e ceto sociale, nel “teatro” semicircolare prendevano posto cardinali e prelati, nello “stazzo” i nobili e le persone qualificate, sul “prato” i diversi quartieri con recinti designati da biffe (paletti con i cartellini numerati): ogni quartiere aveva poi a disposizione due portinai e diciotto servitori capeggiati da un sacerdote dell’Oratorio.
Il pranzo era modesto, quasi penitenziale, ma con il passar degli anni acquistò una sempre maggiore importanza, tanto che, racconta il Belli, la sosta ricreativa, senza nulla togliere all’aspetto religioso e spirituale, costituiva una vera e propria festa, come viene ricordata tutt’ora in un’epigrafe posta a villa Celimontana.
Il pranzo era allietato dalle musiche della fanfara di Castel S. Angelo e dei trombettieri del Senato.
Una volta ripreso il cammino, passando davanti alle chiese di San Sisto Vecchio e dei S.S. Nereo ed Achilleo in Fasciolae si puntava verso San Giovanni in Laterano, cattedrale di Roma, e da lì, dopo una sosta alla Scala Santa, si raggiungeva Santa Croce, dove sono conservate le reliquie della Passione di Cristo; poi attraverso porta Maggiore si giungeva a San Lorenzo fuori le mura, accanto al cimitero del Verano, e si venerava la tomba del diacono martire San Lorenzo.
Durante tutto il percorso le preghiere ed i canti erano intervallati da pause per la meditazione; poi al tramonto si compiva l’ultima visita a Santa Maria Maggiore, principale tempio mariano cittadino, passando la chiesa di s. Eusebio, san Vito, san Giuliano, sant’Antonio abate e santa Prassede. Dopo l’ultima devozione all’icona della Madonna “Salus populi romani”, la folla di pellegrini si scioglieva.
Il percorso univa alla dimensione devozionale e penitenziale delle preghiere, dei canti religiosi e delle visite alle catacombe e ai luoghi di martirio degli antichi cristiani, la contemplazione delle bellezze archeologiche della campagna romana. Inoltre, nonostante nel corso dei secoli in diverse occasioni siano state fatte processioni di vario genere, ed i Papi in molti casi abbiano celebrato Messa sempre in chiese diverse, la grande invenzione di san Filippo Neri fu di fare della “visita” una pratica collettiva, un momento di aggregazione spirituale e di rinnovamento interiore, nel preciso momento dell’anno in cui il carnevale tendeva a spingere fuori della vita il pensiero della penitenza e della stessa vita cristiana.
Questo personaggio mite ma forte, dolce ma indomito, degli anni del Concilio di Trento capì che la strada da percorrere era quella della vita religiosa di comunità, con una spiritualità da vivere in gruppo, momento essenziale della religiosità cattolica, in un’epoca in cui, invece, il protestantesimo sottolineava gli aspetti individuali del rapporto con Dio. La creazione della visita cadeva nel momento storico più adatto: inizialmente osteggiata dalle autorità ecclesiastiche, ben presto queste capirono che si trattava di una sorgente importante di rinnovamento spirituale per la Città, e per tutti i pellegrini che ogni giorno vi giungevano da ogni parte del mondo, in seguito anche richiamati dalla fama delle “visite”.
Col passare del tempo, la visita diventò tradizione consolidata: a Roma venne integrata con l’aggiunta nel percorso delle chiese di S. Paolo alle Tre fontane, sorta sul luogo del martirio dell’Apostolo, e della SS. Annunziatella, sorta invece sul luogo di un’apparizione della Vergine e dotata di un ospedale per assistere chi veniva colto da malore durante la visita. L’idea del Santo venne esportata anche fuori della città dei papi: Gregorio XIII, su preghiera di S. Carlo Borromeo arcivescovo di Milano e contemporaneo di Filippo, estese anche alle sette principali chiese della città lombarda le stesse indulgenze delle sette basiliche romane.
Una trentina di anni dopo la prima visita del Neri, Sisto V Peretti (1585-1590) fece del pellegrinaggio alle Sette Chiese un punto di forza del suo programma di riforma della liturgia e delle devozioni romane. Il tentativo era quello di valorizzare in modo innovativo le tradizioni devozionali della città, anzitutto partecipando personalmente ad un altissimo numero di processioni e celebrazioni pubbliche. Nel suo progetto la Chiesa ed il suo capo dovevano risultare ben visibili e agire direttamente sull’immaginario e la spiritualità dei fedeli, a cominciare dal luogo, Roma, in cui si fondava lo stesso primato del pontefice. Puntando molto sulle Sette Chiese diede anche un’autorevole spiegazione del perché: come s. Giovanni nell’Apocalisse si rivolge alle Sette Chiese dell’Asia, raffigurando in esse l’unità della Chiesa universale che Dio riempie della grazia dei sette doni del suo Spirito, così a Roma si venerano Sette Chiese, in cui è raffigurata l’unità della Chiesa, nel suo capo, che è il Papa. Anche la devozione popolare delle Sette Chiese rappresentava, nelle intenzioni del pontefice, l’unità della Chiesa minacciata dalla Riforma.
Inoltre il numero sette aveva anche altri significati numerologico – religiosi: le sette effusioni del sangue di Cristo, le sette parole di Cristo in croce, i sette doni dello Spirito Santo, i sette sacramenti, le sette opere di misericordia. Questi accostamenti danno forse ad alcuni l’impressione di un gioco infantile, ma in realtà dietro ciascuna di queste invenzioni numerologiche stavano dei percorsi di meditazione, di preghiera, di riflessione: sulla Passione, sui doni di Dio alla Chiesa, per ringraziarlo, sulle opere di carità per chiedere aiuto a compierle. Allo stesso modo si poteva invocare il perdono dei sette peccati capitali e chiedere le sette virtù contrarie recitando i sette salmi penitenziali.
Con il tempo da sette, o nove, le chiese si ridussero a quattro, alle basiliche patriarcali, e dall’inizio dell’Ottocento questa devozione fu progressivamente abbandonata, anche se non se ne è estinta la memoria, tanto che “annà pe’ le Sette Chiese” è rimasto un modo di dire popolare. Nel 1870, dopo i fatti di Porta Pia la pratica venne sospesa fino alla riapertura delle relazioni politiche fra il neonato Governo Italiano e la Santa Sede. Un nuovo risveglio vi fu poi in concomitanza con la canonizzazione di Filippo Neri nel 1922.
In seguito, quindi, la consuetudine è rifiorita, ma senza quel carattere di partecipazione popolare voluto da San Filippo Neri, definito un “mistico nei panni di buffone”, quanto piuttosto di fatto personale o di piccoli gruppi di fedeli.
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